Irene Gianeselli. Photos by Daniela Zedda
Scoperto dalla scrittrice e critica Grazia Cherchi, ha esordito nel 1995 con il romanzo “Il fuggiasco”vincitore del Premio del Giovedì 1996, edito dalle Edizioni E/O per cui sono usciti anche “Arrivederci amore, ciao” (secondo posto al Gran Premio della Letteratura Poliziesca in Francia 2003, finalista all’Edgar Allan Poe Award nella versione inglese pubblicata da Europa Editions nel 2006), “La verità dell’Alligatore”, “Il mistero di Mangiabarche”, “Le irregolari”, “Nessuna cortesia all’uscita” (Premio Dessì 1999 e menzione speciale della giuria Premio Scerbanenco 1999), “Il corriere colombiano”, “Il maestro di nodi” (Premio Scerbanenco 2003), “Niente, più niente al mondo”(Premio Girulà 2008), “L’oscura immensità della morte”, “Nordest” con Marco Videtta (Premio Selezione Bancarella 2006), “La terra della mia anima” (Premio Grinzane Noir 2007), Cristiani di Allah (2008), “Perdas de Fogu” con i Mama Sabot (Premio Noir Ecologista Jean-Claude Izzo 2009), “L’amore del bandito” (2010), “Alla fine di un giorno noioso” (2011), “Il mondo non mi deve nulla” (2014), la fiaba “La via del pepe” (2014), “La banda degli amanti” e “Per tutto l’oro del mondo” (2015).
Sempre per le Edizioni E/O cura la collezione Sabot/age. Per Einaudi Stile Libero ha pubblicato “Mi fido di te”, scritto assieme a Francesco Abate, “Respiro corto”, “Cocaina” (con Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo) e, con Marco Videtta, i quattro romanzi del ciclo “Le Vendicatrici” (Ksenia, Eva, Sara e Luz).
Massimo Carlotto, che racconta ai lettori di Oubliette Magazine cosa significa essere uno scrittore moderno, è anche autore teatrale, sceneggiatore e collabora con quotidiani, riviste e musicisti.
I.G.: Ti ringrazio per la disponibilità. Prima di parlare del tuo nuovo romanzo vorrei chiederti di definire quale deve essere, a tuo avviso, il compito di uno scrittore.
Massimo Carlotto: È evidente, ognuno ha il suo punto di vista, e questo è un bene. Io credo che uno scrittore debba attraversare il proprio tempo occupandosene, sia dal punto di vista della scrittura, quindi raccontandolo, sia dal punto di vista sociale e politico, come cittadino. Credo che il compito di uno scrittore moderno sia di essere fortemente inserito nella propria realtà e credo anche che un altro suo compito sia contaminarsi con tutti i tipi di forme artistiche per dare il meglio di sé al lettore. Lo scrittore moderno deve essere in grado di conoscere un grande numero di generi narrativi.
I.G.: Potresti definire ancora il ruolo di scrittore-cittadino?
Massimo Carlotto: Secondo me lo scrittore ha un ruolo sociale nel senso che deve esprimersi pubblicamente su quello che accade. Io quello che dico lo penso e lo faccio, prendo posizione, il fatto di prendere posizione oggi, in questo tipo di società, è fondamentale.
I.G.: Nell’Italia di questi tempi – o forse è sempre stato così – c’è chi uccide, chi condanna, chi avvelena il territorio per molto meno di tutto l’oro del mondo. Forse è cambiata la risposta della gente: oggi si è disposti a dare tutto l’oro del mondo a chi può fornire una pistola da tenere sotto il cuscino, e paradossalmente oggi per tutto l’oro del mondo si è disposti a restare in silenzio davanti a chi, per molto meno, uccide, condanna e avvelena il territorio. Qual è stata l’esigenza e l’urgenza che ti ha portato, a pochi mesi dall’uscita de “La banda degli amanti”, a scrivere e pubblicare “Per tutto l’oro del mondo”?
Massimo Carlotto: Premetto che il noir è una scusa per raccontare la realtà. Una storia noir mi permette di raccontare un luogo, un tempo e degli avvenimenti, ma soprattutto la realtà che sta attorno a quegli avvenimenti. “Per tutto l’oro del mondo” è un pretesto per raccontare le trasformazioni del nord-est, la pancia del nord-est e la sua evidente contraddizione, cioè da un lato questo territorio è fortemente sostenuto dall’economia criminale che ci ha permesso di reggere la crisi e dall’altro noi fingiamo che non esista e pensiamo che il grande problema sia la micro-criminalità, siano i rom, siano i migranti e quindi c’è una forte tendenza ad una sorta di armamento del territorio in nome di una difesa, dimenticando che il vero problema del territorio è questa occupazione finanziaria da parte delle culture mafiose. Non si può nemmeno parlare di omertà di fronte a quello che succede, semplicemente noi – secondo il Fondo Monetario Internazionale – siamo il quarto Paese al mondo in cui il denaro dalle mafie viene investito e si ricicla in attività pulite, pertanto c’è una diversa percezione del crimine. Quando la società ha capito che gran parte del nostro impegno economico per affrontare la crisi continua a provenire da questo movimento di denaro, allora ha deciso di cancellare il crimine, perché questa è una forma di crimine che ci permette di conservarci: si tratta di un problema a livello europeo. Invece la microcriminalità viene considerata con più fastidio, perché la vediamo quotidianamente, mentre l’occupazione finanziaria è ben più pericolosa per le sue conseguenze e per tutti gli effetti collaterali, come di fatto è già l’infiltrazione massiccia nel territorio, e questo aspetto viene sottovalutato dalla società locale. Ed è proprio questa la grande contraddizione evidente che emerge in “Per tutto l’oro del mondo“: da una parte la lotta spietata ed esagerata, anche ad uso politico e propagandistico, della microcriminalità e della così detta “africanizzazione” del nostro territorio, come dice il nostro governatore, e dall’altra non si valuta il grande problema economico-finanziario, per comodità.
I.G.: Cosa pensi del perbenismo qualunquista e della dilagante giustificazionismo con cui ultimamente al nord-est si fomentano la violenza ed il ricorso alla giustizia privata?
Massimo Carlotto: Anche il ricorso alla giustizia privata è un discorso ovviamente pompato politicamente. Ci sono i nostri sindaci che si fanno fotografare armati, che vanno ad allenarsi al tiro assegno, una sorta di militarizzazione nei confronti di una microcriminalità fastidiosa, nel senso che questo è un problema, ma non il peggiore. Ripeto, la contraddizione è proprio questa: c’è silenzio sulla questione del riciclaggio ed è un silenzio anche culturale. “Per tutto l’oro del mondo” è servito per raccontare questa contraddizione.
I.G.: In questi mesi hai incontrato molti lettori per l’uscita di “Per tutto l’oro del mondo”, qual è stato il riscontro con loro?
Massimo Carlotto: Molto, molto buono, sia per il ritorno dell’Alligatore, per la serie, ma anche per gli argomenti trattati. È stato molto importante dibattere con i lettori su questi temi. Questi romanzi nascono da inchieste e poi sono romanzi veri e propri. I temi servono piuttosto a seminare domande, nel romanzo noir c’è un doppio binario di lettura: da una parte c’è la storia, dall’altra c’è quello che si può leggere tra le righe e il lettore poi si incuriosisce, io lo vedo dalle mail che mi arrivano continuamente, la gente vuole sapere. È interessante ed è questo il ruolo del noir che consente di avere due forme di confronto con il lettore.
I.G.: L’Alligatore continuamente rafforza la propria personalità ed ha una evoluzione, questo è il merito dello scrittore che familiarizza e allo stesso tempo riesce a mantenere un distacco critico dalla propria materia consegnando al lettore un personaggio empatico, con una umanità ed una esigenza di capire la realtà che lo circonda. Quanto è cambiato, se è cambiato, il tuo rapporto con l’Alligatore?
Massimo Carlotto: Io non ho la concezione americana del personaggio che rimane sempre uguale a se stesso mentre il mondo attorno a lui cambia. Io ho una concezione europea, credo che il personaggio debba essere adeguato al tempo e al luogo che vive, perciò deve essere un personaggio che invecchia, invecchia e ovviamente passa il tempo ed è il personaggio a riflettere, a fare delle considerazioni anche rispetto al proprio vissuto. Io penso sia fondamentale questo, altrimenti non sarebbe interessante per un lettore osservare le trasformazioni del Paese se non ne è investito anche il personaggio.
I.G.: In “Per tutto l’oro del mondo” l’amore torna ad essere un punto prospettico interessante, come è accaduto in “Il mondo non mi deve più nulla”. Non si tratta di “romanticismo” – canone fortemente abusato – né di un alibi puro e semplice. Pare invece che l’amore diventi un movente per l’Alligatore. Ed allora, come il noir e l’amore possono convivere?
Massimo Carlotto: L’Alligatore s’è innamorato spesso nel passato. Ma non c’è una contraddizione tra il genere e questo innamorarsi. Tra l’altro tutti e tre i personaggi si ritrovano in una crisi affettiva, quindi l’Alligatore vive la sua. Ma su questo c’è un ragionamento. Io ho tre personaggi border-line, che vivono all’esterno della società, ma hanno contatto con la società attraverso l’investigazione che è anche l’unico modo a loro disposizione per comprenderla e analizzarla. Quindi con l’investigazione hanno contatto con il mondo dei “regolari”. Però d’altra parte vivono in un mondo esterno, una sorta di nicchia, perché a me interessa che i personaggi abbiano questo punto di vista esterno, lucido, come se guardassero la società attraverso il buco della serratura. Questo punto di vista esterno lo conservano anche per i sentimenti e quindi devono trovarsi in circostanze e situazioni particolari per avere un determinato rapporto sul piano affettivo. Il problema di fondo è che questi personaggi non cercano situazioni normali, di matrimonio, non sono interessati a questo. Sono interessati ad un certo tipo di femminilità. Per questo nel romanzo l’Alligatore incontra Cora, una cantante jazz, personaggio di cui non poteva non innamorarsi.
I.G.: Hai scritto diversi testi per il teatro. Qual è il tuo modo di pensare la scrittura quando questa diventerà di nuovo carne sul palcoscenico e qual è il lavoro tuo che ritieni finora più rappresentativo?
Massimo Carlotto: Io scrivo un testo teatrale all’anno, alcuni restano in Italia altri vanno all’estero e magari hanno più fortuna di altri, ma non ce n’è uno più rappresentativo degli altri perché si tratta di un unico progetto di scrittura teatrale che si sviluppa negli altri, a me piace molto lavorare con gli attori, per esempio è stato fondamentale lavorare con Pamela Villoresi e Claudio Casadio per lo spettacolo di quest’anno “Il mondo non mi deve nulla”, è stato fondamentale vederli lavorare insieme e analizzare il testo per portarlo in scena. È sempre importante per me collaborare con altre sensibilità artistiche, per esempio con un lavoro che diventa televisivo, cinematografico, radiofonico o anche un fumetto, arriva però sempre un certo punto in cui mi faccio da parte. Non credo nel controllo totale dello scrittore sul proprio testo, c’è un momento in cui il testo deve diventare di altri perché altre sensibilità artistiche se ne approprino. Io non posso entrare nella mente o nella sensibilità di un attore, devo fidarmi dell’attore, del regista e dello scenografo, sono loro che prendono il controllo del testo e lo portano in scena. È necessaria questa forma di rispetto non solo per la professionalità altrui, ma anche per l’arte, la scrittura si occupa di creare una situazione di testo, di rappresentazione che può diventare realtà, che altri lo trasformino in realtà è un passaggio necessario, però mi deve vedere distante. Io divento spettatore e questo secondo me è davvero fondamentale.
I.G.: In questo momento più che mai ritorna in mente il passo in cui Amal, protagonista de “La via del pepe. Finta fiaba africana per europei ben pensanti”, incontra la Morte e lotta per sopravvivere. Credi che oggi si potrebbe scrivere una Finta fiaba siriana per europei approfittanti?
Massimo Carlotto: Secondo me è già stata scritta: è la realtà. “La via del pepe” era rappresentazione della realtà sotto forma di fiaba, l’europeo ben pensante esiste, siamo tutti ben pensanti, ma di fatto siamo così lontani da una rappresentazione reale che viviamo tutti all’interno di una finzione, a volte fiaba, a volte horror, a volte noir. Basta vedere come ci gestiamo attraverso i social, la televisione, il rapporto con la realtà in questa società sta diventando uno dei problemi più complessi. Secondo me la finta fiaba siriana è già scritta.
I.G.: Il mondo continua a cambiare: cambiano le regole dei taciti accordi, cambiano i sistemi mafiosi, cambia il valore della parola. Nel saggio “Miseria y splendor de la traduccíon” José Ortega y Gasset scrive: «[...] Noi non solo parliamo in una determinata lingua, ma pensiamo scivolando intellettualmente su binari prestabiliti che ci vengono assegnati dal nostro destino verbale. [...] Le nostre lingue sono un anacronismo. [...] Quando parliamo siamo umili ostaggi del passato». Sei d’accordo con questa interpretazione? Credi che le nostra lingue siano anacronismi ancora capaci di rendere questo continuo cambiamento globale?
Massimo Carlotto: Le lingue sono delle convenzioni, è chiaro. La lingua che uso io per narrare è una lingua fortemente ancorata alla realtà. Nel senso che il grande problema del noir è quello di unire la lingua letteraria con la lingua che parlano i personaggi e che non è assolutamente letteraria. Non raccontando di ambienti particolarmente acculturati è ovvia una contraddizione evidente tra la lingua letteraria e quella dei personaggi. Sono convinto che le nostre lingue siano ancora in grado di raccontare il mondo che cambia. La parola è uno strumento immediato, non ci costa nulla usarlo. Non credo di essere d’accordo su tutto il ragionamento, nel senso che io credo che Ortega y Gasset abbia un punto di vista diverso da me complessivamente, le nostre lingue saranno anche un anacronismo, ma restano uno strumento fondamentale.
I.G.: Questo perché tutto sommato una lingua che viene usata nel presente, si adatta al tempo presente. Forse siamo molto più umili ostaggi del presente che del passato?
Massimo Carlotto: Io penso che il grande dramma dell’italiano sia nel fatto di subire una profonda trasformazione, anche a causa della lingua televisiva, si stanno usando molti meno vocaboli di un tempo e quindi noi perdiamo il nostro vocabolario, lo perdiamo anche dalla memoria e non solo dall’uso, invece è assolutamente necessario un recupero. Io credo che se gli italiani tornassero a parlare come un tempo, unendo il passato e il presente in una lingua più corretta e ricca, sarebbe una cosa buona per tutti. Questo per comunicare, perché la lingua è sempre uno strumento di comunicazione essenziale.
I.G.: Cosa devono aspettarsi i tuoi lettori nei prossimi mesi?
Massimo Carlotto: A luglio esco nella prima antologia Sabotage, che comprende tutti gli autori Sabot/Age ed E/O con i loro personaggi seriali: è un’antologia sulle Olimpiadi e il titolo sarà “Giochi di ruolo al Maracanà” (Edizioni E/O). A settembre uscirò con un lavoro totalmente diverso, un romanzo dal titolo “Il Turista” ambientato a Venezia, che uscirà con Rizzoli. Come dicevo, la scrittura è anche un modo per intervenire sui generi, e secondo me sta succedendo qualcosa, non so se interessante o meno, all’interno della letteratura di genere. A maggio 2017 tornerò con l’Alligatore.
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