Chiunque qui dentro
cerchi un assassino è pregato di andarsene.
Due poliziotti della
omicidi sulle tracce di un maniaco, un assassino di donne, una furia che si
nasconde nei boschi, un’indagine che si trasforma in un’ossessione privata. Ci
troviamo in Louisiana, non molti anni fa. Ci troviamo davanti agli schermi dei
nostri televisori, dei nostri computer, e seguiamo lo svolgersi di
quell’indagine. Allo stesso tempo proviamo una strana, torbida affezione per
quegli sbirri che portano, ovunque vadano, l'incontrovertibile aura del
fallimento.
Ogni passo che i due
muovono verso la soluzione somiglia a uno sguardo lanciato dentro un abisso. La
nostra memoria è breve e per colpa di quel misterioso potere magico di cui sono
in possesso le serie televisive tutto ci sembra nuovo. Eppure esiste un seme
letterario piantato altrove, in Europa, all’incirca sessant’anni fa, da uno
scrittore che prima di chiunque altro aveva scelto il poliziotto come emblema
del nulla, in un romanzo del 1958 chiamato La promessa. «A man remembers his
debts». Queste parole, pronunciate da Rust-McConnaughey nel sesto episodio di
True detective suonano troppo simili alla profezia che il procuratore H.
rivolge al commissario Matthai nelle prime pagine di quel romanzo: «C’è da
augurarsi che lei non faccia mai una promessa che debba mantenere». Inverosimile, viene da pensare, che
Nick Pizzolatto, scrittore di romanzi e autore di True detective, non abbia mai
letto Friedrich Dürrenmatt.
Tutto è spiegato in un
testamento incomprensibile, un testo datato 1989 in cui si parla di una valle
dimenticata, una spelonca tra le montagne della Svizzera, «repubblica
platonico-alberghiera». La valle descritta in quel testamento letterario è La
valle del caos, e il lettore che si arrovella per decifrare il testamento è
solo un uomo misero che rischia di impazzire, non ha un lavoro, dorme poco e
legge Dürrenmatt da molti anni.
Avrebbe potuto immaginare
tutto, tranne che Dürrenmatt gli consegnasse qualcosa di tanto oscuro. Al
massimo un testamento difficile, un ennesimo scherzo, una nuova dimostrazione
di quanto la presenza umana nell’universo sia dovuta a un caso beffardo.
L’uomo, che così tanto si ingegna per stabilire un ordine, è lui stesso il
meccanismo difettoso. L’uomo è il difetto, e per tutta la durata della sua
storia non ha fatto altro che guardarsi indietro, guardarsi dentro, e tentare
di fornire spiegazioni, irreggimentare l’esistenza, mettere insieme gli indizi
e solo alla fine, prima di soffiare sulla candela, pronunciare con
soddisfazione il nome del colpevole.
Già in La promessa
Dürrenmatt aveva scritto «[…] un fatto non può “tornare” come torna un conto,
perché noi non conosciamo tutti i fattori necessari ma soltanto pochi elementi
per lo più secondari. E ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha
una parte troppo grande». Eppure il lettore aveva sperato fino all’ultimo che
prima di morire lo scrittore svizzero gli presentasse finalmente il grande
assassino universale, che gli mostrasse il volto e pronunciasse il nome del
responsabile, affinché tutti gli indizi fossero giustificati e si riunissero a
formare l’obiettivo del raccontare: l’epilogo, la rivelazione, la compiutezza.
Invece il povero depositario dell’eredità si ritrova a leggere un testo oscuro,
impervio. L’ultimo lavoro pubblicato, il testamento, La valle del caos raduna
tutti gli elementi che Dürrenmatt aveva utilizzato nella sua letteratura (il
tranquillo paesaggio montano, il villaggio, l’omicidio, la furia sotterranea,
il poliziotto, la donna golosa, la donna cannibale, il funzionario pubblico, la
clinica medica, il vecchio Dio) e li scaraventa nello stesso calderone; lascia
che le parti interagiscano senza controllo, senza trama, senza legge. Chi scrive
può solo assecondarli, lasciare che si massacrino, che appicchino incendi, che
vaghino per i sentieri ghiacciati fino alle foreste che circondano la valle.
Non esiste una giustificazione narrativa e non esiste indagine. Il lettore è
costretto a cedere. Friedrich Dürrenmatt non gli ha lasciato nulla, se non la
sensazione del fuoco e del disgusto, della neve alle ginocchia, della caverna.
Tutto, dicevamo, è spiegato in un testamento impossibile. Per questo il lettore
si ubriaca fino a farsi esplodere. Cosa poteva aspettarsi, in fondo, da uno che
in tutta la sua carriera di scrittore non aveva fatto altro che compiere
massacri, demolire, minare, inquinare prove, sabotare?
A dire il
vero, riflette il lettore, qualche colpevole Dürrenmatt l’aveva smascherato. Il giudice e il suo boia e Il sospetto erano
romanzi gialli tradizionali, seppure di grande qualità. In entrambi, tuttavia,
ci troviamo al cospetto di personaggi esemplari, poliziotti alcolizzati e
prossimi alla pensione che non riescono a resistere alla tentazione di
dedicarsi a un ultimo caso, il più indecifrabile. L’indagine definitiva è
l'enigma ultimo, e gli indizi portano tutti a una forma di colpevolezza
irrimediabile. Quella colpevolezza è il passato.
Poi arrivò La promessa,
la rivelazione, e tutto cambiò; Dürrenmatt consegnò il suo investigatore alla
follia, lo abbandonò, pensò di inserire tra l’ingranaggio dell’induzione e
quello della soluzione l’invisibile granello di sabbia del caso. «Aspetto, io
aspetto, verrà, verrà», continua a ripetere quel poliziotto, quel Matthäi che
da sessant’anni attende il momento buono per incastrare il suo fantasma. È
illusorio credere, pensa Dürrenmatt, che un narratore conosca meglio dei suoi
lettori le vicende che si prepara a raccontare. Lo scrittore non è un essere
superiore, bensì un povero pazzo che tenta di spiegare quello che per primo non
capisce. Il romanzo giallo tradizionale è l’immagine di tutto questo: un
artificio. Per definizione, contiene in sé l’ordine assoluto e tutti gli
elementi necessari. Niente è superfluo, il controllo è totale, l’ultima pagina,
quella in cui verrà rivelato l’assassino, è rassicurante, per quanto sia una
fine. Eppure ho come la sensazione che l’assassino dei miei racconti, si dice
Dürrenmatt, sia anche il mio assassino. Non posso conoscerlo, non posso essere
sicuro della sua identità. Sono stato io a insegnargli che «chi è prudente cela
il proprio nome». Se io per primo temo per la mia incolumità, come faccio a
garantire ai miei lettori la quiete dell’aritmetica? L’unica conclusione
possibile è che chi scrive gialli perfetti è poco più di un colletto bianco con
una cattiva digestione.
Dürrenmatt invece scrive
in funzione dell’ignoto, si allenta il colletto che gli taglia il respiro, e la
forma breve gli consente una maggiore libertà. I suoi racconti e le novelle
nascondono, dietro alla bellezza della parola e alla perfezione
dell’architettura, la grande ricerca che Dürrenmatt compie – gli occhi piccoli
dietro le lenti e il fisico imbolsito – avanzando nell’oscurità dell’umano,
nella farsa della giustizia, nell’illusione del tempo, nell’assurdo che regna
inflessibile su tutto. Impossibile, dopo averlo letto, non dimenticare il
maestoso La guerra invernale del Tibet, in cui un soldato ridotto alla cecità e
alla mutilazione, con un fucile al posto del braccio, è condannato a vagare per
un sottosuolo senza fine e a incidere la propria storia con un punteruolo sulla
roccia. Alla stessa eterna sensazione di oscurità appartiene Il tunnel, in cui
uno studente svizzero, seduto comodamente nel suo scompartimento, a un certo
punto si accorge che il treno a bordo del quale si trova sta viaggiando in una
galleria troppo lunga. Lo studente conosce la tratta che sta percorrendo, sa
che nella regione non esistono gallerie così. Lentamente viene colto dal
terrore. Il treno ha raggiunto una velocità stratosferica. Uno dopo l’altro gli
uomini del personale di bordo si lanciano dai finestrini e lo studente resta
solo, nella cabina della locomotiva, a guardare il buio davanti a sé, mentre il
treno precipita verso una tenebra infinita. E così ancora, il tribunale
grottesco di La panne, le torbide strategie politiche descritte in La caduta,
l’amore e la sconfitta del Minotauro, perduto nel suo labirinto; l’eresia di
Natale e la riscrittura mitologica di La morte della Pizia, una storia di
profezie sbagliate pronunciate da un oracolo, nel tentativo disperato di far
capire agli uomini che «la verità esiste solo nei limiti in cui la lasciamo in
pace».
I racconti di Dürrenmatt
potrebbero essere definiti “fantastici”, ma solo nel caso in cui si fosse così
idioti da dare del “fantastico” a Kafka. A questo pensa il lettore. Più che un
cultore del fantastico, a dire il vero, Dürrenmatt gli sembra uno scienziato
provvisto di straordinario rigore che lavora a un esperimento disumano,
qualcosa che prima o poi lo distruggerà o gli sconvolgerà la mente. Tutta
questa attenzione all’uomo, alla sua condizione di creatura presuntuosa capace
di istituire un improbabile ministero della verità (che per meglio svolgere il
suo operato si scinde in numerose sottosegreterie che a loro volta danno vita a
migliaia di gabinetti), lo ha condotto a raccontare l’assurdo, il macabro,
l’oscuro e il ridicolo, tutte forme della stessa natura. Tutti connotati dello
stesso colpevole.
A questo proposito, al
lettore viene in mente Berna e in particolare un documentario in cui
Dürrenmatt, nel 1981, torna a Berna e racconta quanto la città gli sembri
cambiata, per quanto questo cambiamento fosse nell’aria, dato che la città
appartiene a quella «azienda che ci ostiniamo a chiamare Stato o patria». A
Berna, dice Dürrenmatt, si cammina in un perenne sotterraneo. È una città di
portici, gallerie, stazioni ferroviarie raggiungibili soltanto tramite scale
mobili vertiginose, popolata da figure spettrali e nella quale «i ricchi
sopportano i poveri come una volta i poveri sopportavano i topi». Mentre guarda
il documentario, il lettore realizza per
l’ennesima volta che Dürrenmatt non ha inventato nulla. Gli è bastato
guardarsi intorno e inforcare gli occhiali della letteratura, ovvero ha fatto
quello che ogni scrittore (o lettore) che si rispetti fa quando esce di casa
anche solo per fare due passi. Si cede alla tentazione di raccogliere indizi,
leggendo Dürrenmatt. Alla fine, però, quello con cui si resta in mano è solo un
mucchio di oggetti vari e misteriosi, e ci si accorge che l’assassino, il
responsabile di tutto, se l’è filata sotto il nostro naso mentre noi tentavamo
di mettere insieme le tracce. Il colpevole è un ombra che si muove sottoterra e
non è, a ben guardare, nulla di diverso da noi. Probabilmente anche lui è alla
ricerca di qualcuno da incolpare. «Do you know what they did to me? What I’ll do to all the sons and
daughters of man» sussurra Errol William Childress nel labirinto di Carcosa.
Sembra una condizione
atroce, questa di prigionieri che si credono guardie e di assassini che si
incastrano con le loro mani, si infilano di proposito in vicoli ciechi o vanno
a bussare alla porta del boia, come in quel vecchio film di Malle, Ascensore
per il patibolo. Eppure, ogni volta che affronta Dürrenmatt, il nostro lettore
pensa che non ci sia, a conti fatti, nulla di più divertente. Forse perché è la
trappola ciò che attira l’essere umano più di ogni altra cosa, la botola,
l’oblio, la solitudine claustrofobica, la solitudine metafisica.
«Così il male l’aveva
sempre ripreso nel suo cerchio, il grande enigma, una fascinosa tentazione di
risolverlo», si legge a un certo punto in Il giudice e il suo boia. « My life's been a circle of
violence and degradation, as long as I can remember. I'm ready to tie it off»
confessa Rust-McConnaughey.
Ecco le
prove. Se in molti di recente si sono
appassionati alla storia di Rust e Cole, è giusto che riscoprano e rendano
omaggio a colui che di quei poliziotti dall’animo abissale è stato il padre. Il
vero poliziotto, come recita il titolo di un’opera postuma di Roberto Bolaño, è
condannato per sua natura al fallimento, a concludere il suo inseguimento
privato, la sua ossessione, nella sconfinata città degli assassini. Una volta
giunto qui, non potrà proseguire, a meno che non si trasformi, diventi
l’ossessione, diventi a sua volta il colpevole.
Non è nato a New York,
Friedrich Dürrenmatt, e nemmeno in Cile o in una regione paludosa della
Louisiana. Guardava Berna, Neuchâtel e la sua Svizzera, ingrassava e immaginava
cosa potesse significare essere un poliziotto alle prese con l’orrore della
quiete apparente, nell’atmosfera rassicurante di quella democrazia cantonale
che è il quotidiano, in cui l’assassino, il mago, è ovunque e non può essere
trovato, e l’unico mistero da risolvere è quello della vita stessa.
La differenza enorme tra
Dürrenmatt e i suoi due nipotini poliziotti americani sta nell'epilogo, nel
testamento. Lo scrittore svizzero sceglie il coraggio totale, sceglie di non
pronunciare l'ultima parola perché quest'ultima è sempre la più preziosa,
sceglie di ammettere la sconfitta e di tuffarsi nel caos.
Prendete il caso,
signori, il congegno più accurato che esista, e avrete tutto. Se cercate la
soluzione dell'enigma godetevi pure True Detective, ma, per il vostro bene, non
leggete Friedrich Dürrenmatt. Rischiereste davvero la pelle.
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