14 de març del 2014

Friedrich Dürrenmatt, l'eterno enigma del colpevole - Luciano Funetta

[Terranullius, marzo 2014]



Chiunque qui dentro cerchi un assassino è pregato di andarsene.

Due poliziotti della omicidi sulle tracce di un maniaco, un assassino di donne, una furia che si nasconde nei boschi, un’indagine che si trasforma in un’ossessione privata. Ci troviamo in Louisiana, non molti anni fa. Ci troviamo davanti agli schermi dei nostri televisori, dei nostri computer, e seguiamo lo svolgersi di quell’indagine. Allo stesso tempo proviamo una strana, torbida affezione per quegli sbirri che portano, ovunque vadano, l'incontrovertibile aura del fallimento.

Ogni passo che i due muovono verso la soluzione somiglia a uno sguardo lanciato dentro un abisso. La nostra memoria è breve e per colpa di quel misterioso potere magico di cui sono in possesso le serie televisive tutto ci sembra nuovo. Eppure esiste un seme letterario piantato altrove, in Europa, all’incirca sessant’anni fa, da uno scrittore che prima di chiunque altro aveva scelto il poliziotto come emblema del nulla, in un romanzo del 1958 chiamato La promessa. «A man remembers his debts». Queste parole, pronunciate da Rust-McConnaughey nel sesto episodio di True detective suonano troppo simili alla profezia che il procuratore H. rivolge al commissario Matthai nelle prime pagine di quel romanzo: «C’è da augurarsi che lei non faccia mai una promessa che debba mantenere». Inverosimile, viene da pensare, che Nick Pizzolatto, scrittore di romanzi e autore di True detective, non abbia mai letto Friedrich Dürrenmatt.

Tutto è spiegato in un testamento incomprensibile, un testo datato 1989 in cui si parla di una valle dimenticata, una spelonca tra le montagne della Svizzera, «repubblica platonico-alberghiera». La valle descritta in quel testamento letterario è La valle del caos, e il lettore che si arrovella per decifrare il testamento è solo un uomo misero che rischia di impazzire, non ha un lavoro, dorme poco e legge Dürrenmatt da molti anni.

Avrebbe potuto immaginare tutto, tranne che Dürrenmatt gli consegnasse qualcosa di tanto oscuro. Al massimo un testamento difficile, un ennesimo scherzo, una nuova dimostrazione di quanto la presenza umana nell’universo sia dovuta a un caso beffardo. L’uomo, che così tanto si ingegna per stabilire un ordine, è lui stesso il meccanismo difettoso. L’uomo è il difetto, e per tutta la durata della sua storia non ha fatto altro che guardarsi indietro, guardarsi dentro, e tentare di fornire spiegazioni, irreggimentare l’esistenza, mettere insieme gli indizi e solo alla fine, prima di soffiare sulla candela, pronunciare con soddisfazione il nome del colpevole.

Già in La promessa Dürrenmatt aveva scritto «[…] un fatto non può “tornare” come torna un conto, perché noi non conosciamo tutti i fattori necessari ma soltanto pochi elementi per lo più secondari. E ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha una parte troppo grande». Eppure il lettore aveva sperato fino all’ultimo che prima di morire lo scrittore svizzero gli presentasse finalmente il grande assassino universale, che gli mostrasse il volto e pronunciasse il nome del responsabile, affinché tutti gli indizi fossero giustificati e si riunissero a formare l’obiettivo del raccontare: l’epilogo, la rivelazione, la compiutezza. Invece il povero depositario dell’eredità si ritrova a leggere un testo oscuro, impervio. L’ultimo lavoro pubblicato, il testamento, La valle del caos raduna tutti gli elementi che Dürrenmatt aveva utilizzato nella sua letteratura (il tranquillo paesaggio montano, il villaggio, l’omicidio, la furia sotterranea, il poliziotto, la donna golosa, la donna cannibale, il funzionario pubblico, la clinica medica, il vecchio Dio) e li scaraventa nello stesso calderone; lascia che le parti interagiscano senza controllo, senza trama, senza legge. Chi scrive può solo assecondarli, lasciare che si massacrino, che appicchino incendi, che vaghino per i sentieri ghiacciati fino alle foreste che circondano la valle. Non esiste una giustificazione narrativa e non esiste indagine. Il lettore è costretto a cedere. Friedrich Dürrenmatt non gli ha lasciato nulla, se non la sensazione del fuoco e del disgusto, della neve alle ginocchia, della caverna. Tutto, dicevamo, è spiegato in un testamento impossibile. Per questo il lettore si ubriaca fino a farsi esplodere. Cosa poteva aspettarsi, in fondo, da uno che in tutta la sua carriera di scrittore non aveva fatto altro che compiere massacri, demolire, minare, inquinare prove, sabotare?

A dire il vero, riflette il lettore, qualche colpevole Dürrenmatt l’aveva smascherato. Il giudice e il suo boia e Il sospetto erano romanzi gialli tradizionali, seppure di grande qualità. In entrambi, tuttavia, ci troviamo al cospetto di personaggi esemplari, poliziotti alcolizzati e prossimi alla pensione che non riescono a resistere alla tentazione di dedicarsi a un ultimo caso, il più indecifrabile. L’indagine definitiva è l'enigma ultimo, e gli indizi portano tutti a una forma di colpevolezza irrimediabile. Quella colpevolezza è il passato.


Poi arrivò La promessa, la rivelazione, e tutto cambiò; Dürrenmatt consegnò il suo investigatore alla follia, lo abbandonò, pensò di inserire tra l’ingranaggio dell’induzione e quello della soluzione l’invisibile granello di sabbia del caso. «Aspetto, io aspetto, verrà, verrà», continua a ripetere quel poliziotto, quel Matthäi che da sessant’anni attende il momento buono per incastrare il suo fantasma. È illusorio credere, pensa Dürrenmatt, che un narratore conosca meglio dei suoi lettori le vicende che si prepara a raccontare. Lo scrittore non è un essere superiore, bensì un povero pazzo che tenta di spiegare quello che per primo non capisce. Il romanzo giallo tradizionale è l’immagine di tutto questo: un artificio. Per definizione, contiene in sé l’ordine assoluto e tutti gli elementi necessari. Niente è superfluo, il controllo è totale, l’ultima pagina, quella in cui verrà rivelato l’assassino, è rassicurante, per quanto sia una fine. Eppure ho come la sensazione che l’assassino dei miei racconti, si dice Dürrenmatt, sia anche il mio assassino. Non posso conoscerlo, non posso essere sicuro della sua identità. Sono stato io a insegnargli che «chi è prudente cela il proprio nome». Se io per primo temo per la mia incolumità, come faccio a garantire ai miei lettori la quiete dell’aritmetica? L’unica conclusione possibile è che chi scrive gialli perfetti è poco più di un colletto bianco con una cattiva digestione.

Dürrenmatt invece scrive in funzione dell’ignoto, si allenta il colletto che gli taglia il respiro, e la forma breve gli consente una maggiore libertà. I suoi racconti e le novelle nascondono, dietro alla bellezza della parola e alla perfezione dell’architettura, la grande ricerca che Dürrenmatt compie – gli occhi piccoli dietro le lenti e il fisico imbolsito – avanzando nell’oscurità dell’umano, nella farsa della giustizia, nell’illusione del tempo, nell’assurdo che regna inflessibile su tutto. Impossibile, dopo averlo letto, non dimenticare il maestoso La guerra invernale del Tibet, in cui un soldato ridotto alla cecità e alla mutilazione, con un fucile al posto del braccio, è condannato a vagare per un sottosuolo senza fine e a incidere la propria storia con un punteruolo sulla roccia. Alla stessa eterna sensazione di oscurità appartiene Il tunnel, in cui uno studente svizzero, seduto comodamente nel suo scompartimento, a un certo punto si accorge che il treno a bordo del quale si trova sta viaggiando in una galleria troppo lunga. Lo studente conosce la tratta che sta percorrendo, sa che nella regione non esistono gallerie così. Lentamente viene colto dal terrore. Il treno ha raggiunto una velocità stratosferica. Uno dopo l’altro gli uomini del personale di bordo si lanciano dai finestrini e lo studente resta solo, nella cabina della locomotiva, a guardare il buio davanti a sé, mentre il treno precipita verso una tenebra infinita. E così ancora, il tribunale grottesco di La panne, le torbide strategie politiche descritte in La caduta, l’amore e la sconfitta del Minotauro, perduto nel suo labirinto; l’eresia di Natale e la riscrittura mitologica di La morte della Pizia, una storia di profezie sbagliate pronunciate da un oracolo, nel tentativo disperato di far capire agli uomini che «la verità esiste solo nei limiti in cui la lasciamo in pace».

I racconti di Dürrenmatt potrebbero essere definiti “fantastici”, ma solo nel caso in cui si fosse così idioti da dare del “fantastico” a Kafka. A questo pensa il lettore. Più che un cultore del fantastico, a dire il vero, Dürrenmatt gli sembra uno scienziato provvisto di straordinario rigore che lavora a un esperimento disumano, qualcosa che prima o poi lo distruggerà o gli sconvolgerà la mente. Tutta questa attenzione all’uomo, alla sua condizione di creatura presuntuosa capace di istituire un improbabile ministero della verità (che per meglio svolgere il suo operato si scinde in numerose sottosegreterie che a loro volta danno vita a migliaia di gabinetti), lo ha condotto a raccontare l’assurdo, il macabro, l’oscuro e il ridicolo, tutte forme della stessa natura. Tutti connotati dello stesso colpevole.


A questo proposito, al lettore viene in mente Berna e in particolare un documentario in cui Dürrenmatt, nel 1981, torna a Berna e racconta quanto la città gli sembri cambiata, per quanto questo cambiamento fosse nell’aria, dato che la città appartiene a quella «azienda che ci ostiniamo a chiamare Stato o patria». A Berna, dice Dürrenmatt, si cammina in un perenne sotterraneo. È una città di portici, gallerie, stazioni ferroviarie raggiungibili soltanto tramite scale mobili vertiginose, popolata da figure spettrali e nella quale «i ricchi sopportano i poveri come una volta i poveri sopportavano i topi». Mentre guarda il documentario, il lettore realizza per  l’ennesima volta che Dürrenmatt non ha inventato nulla. Gli è bastato guardarsi intorno e inforcare gli occhiali della letteratura, ovvero ha fatto quello che ogni scrittore (o lettore) che si rispetti fa quando esce di casa anche solo per fare due passi. Si cede alla tentazione di raccogliere indizi, leggendo Dürrenmatt. Alla fine, però, quello con cui si resta in mano è solo un mucchio di oggetti vari e misteriosi, e ci si accorge che l’assassino, il responsabile di tutto, se l’è filata sotto il nostro naso mentre noi tentavamo di mettere insieme le tracce. Il colpevole è un ombra che si muove sottoterra e non è, a ben guardare, nulla di diverso da noi. Probabilmente anche lui è alla ricerca di qualcuno da incolpare. «Do you know what they did to me? What I’ll do to all the sons and daughters of man» sussurra Errol William Childress nel labirinto di Carcosa.

Sembra una condizione atroce, questa di prigionieri che si credono guardie e di assassini che si incastrano con le loro mani, si infilano di proposito in vicoli ciechi o vanno a bussare alla porta del boia, come in quel vecchio film di Malle, Ascensore per il patibolo. Eppure, ogni volta che affronta Dürrenmatt, il nostro lettore pensa che non ci sia, a conti fatti, nulla di più divertente. Forse perché è la trappola ciò che attira l’essere umano più di ogni altra cosa, la botola, l’oblio, la solitudine claustrofobica, la solitudine metafisica.

«Così il male l’aveva sempre ripreso nel suo cerchio, il grande enigma, una fascinosa tentazione di risolverlo», si legge a un certo punto in Il giudice e il suo boia. « My life's been a circle of violence and degradation, as long as I can remember. I'm ready to tie it off» confessa Rust-McConnaughey.
Ecco le prove. Se in molti di recente si sono appassionati alla storia di Rust e Cole, è giusto che riscoprano e rendano omaggio a colui che di quei poliziotti dall’animo abissale è stato il padre. Il vero poliziotto, come recita il titolo di un’opera postuma di Roberto Bolaño, è condannato per sua natura al fallimento, a concludere il suo inseguimento privato, la sua ossessione, nella sconfinata città degli assassini. Una volta giunto qui, non potrà proseguire, a meno che non si trasformi, diventi l’ossessione, diventi a sua volta il colpevole.

Non è nato a New York, Friedrich Dürrenmatt, e nemmeno in Cile o in una regione paludosa della Louisiana. Guardava Berna, Neuchâtel e la sua Svizzera, ingrassava e immaginava cosa potesse significare essere un poliziotto alle prese con l’orrore della quiete apparente, nell’atmosfera rassicurante di quella democrazia cantonale che è il quotidiano, in cui l’assassino, il mago, è ovunque e non può essere trovato, e l’unico mistero da risolvere è quello della vita stessa.

La differenza enorme tra Dürrenmatt e i suoi due nipotini poliziotti americani sta nell'epilogo, nel testamento. Lo scrittore svizzero sceglie il coraggio totale, sceglie di non pronunciare l'ultima parola perché quest'ultima è sempre la più preziosa, sceglie di ammettere la sconfitta e di tuffarsi nel caos.

Prendete il caso, signori, il congegno più accurato che esista, e avrete tutto. Se cercate la soluzione dell'enigma godetevi pure True Detective, ma, per il vostro bene, non leggete Friedrich Dürrenmatt. Rischiereste davvero la pelle.


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