Un violento spaccato della giungla di New York nello scontro tra un piccolo spacciatore e un poliziotto ebreo che vuole recuperarlo
Massimo Gardella
«Dovrei essere uno “scrittore di thriller”. Almeno è come sono catalogato se cercate i miei romanzi in libreria e biblioteca. Il problema è che non mi vedo così. Cerco di scrivere romanzi a sfondo sociale». Nel grande calderone che ribolle di tinte dal «giallo» al «noir», Peter Blauner si posiziona in quella fascia che rischia di deludere i lettori accaniti di storie criminali, chi magari confonde il genere con la versione romanzata della cronaca nera, e allo stesso tempo mantiene una tensione emotiva che non può appartenere ad altro genere se non a quello da cui l’autore stesso cerca di chiamarsi fuori.
Blauner appartiene alla generazione di scrittori cresciuti a pane e cinema negli anni Settanta, con i primi film di Scorsese e Sidney Lumet, da Mean Streets a Quel pomeriggio di un giorno da cani, pellicole focalizzate sul disagio sociale più che sull’aspetto criminale implicato. Anche i suoi personaggi prima o poi devono fare i conti con il sistema di cui fanno parte, sia come membri produttivi e integrati nella società sia come mine vaganti di distruzione e caos, o vittime di ingiustizie del sistema (come il detenuto innocente, rimasto vent’anni in galera per indagini frettolose in Stella cadente, pubblicato da Rizzoli nel 2006).
L’inesorabilità di un percorso, è questa la suspense, non dettata dall’intreccio o dai cliché del colpo di scena, ma dall’evoluzione o involuzione dei personaggi sul ritmo caotico della grande metropoli. La città, New York, è descritta come una versione diabolica delle cartoline poetiche di Woody Allen, ed è l’altro elemento pulsante della fiction di Blauner: il vero «duro» della storia, l’habitat dove si consuma il duello tra due antagonisti, un’altra caratteristica dei suoi romanzi.
In Slow Motion Riot, sua opera prima del ’91, uscita ai tempi per Mondadori come Il nero dell’arcobaleno e ora ripubblicata da Il Saggiatore con il titolo originale (e con la vecchia traduzione, in tutti i sensi) assistiamo al destino convergente di Steven Baum e Darryl King. Il primo è un giovane ufficiale giudiziario del Dipartimento di libertà vigilata di New York: bianco, ebreo e nato nel Queens, con un padre anziano e razzista contro neri e asiatici che hanno invaso il quartiere. Si definisce liberal ma nel ’91 l’ipocrisia nociva del politically correct non si è ancora innestata nel costume sociale: è ambizioso, si interroga sul senso del suo lavoro su un piano più vasto. Passa le sue giornate in un cubicolo a ricevere sbandati da reinserire nella società, un campionario umano che va dai giovinastri di strada, piccoli tossici e ladruncoli, fino a ex sindacalisti convertiti alla truffa finanziaria (Richard Silver, personaggio che meriterebbe un romanzo solo per sé). Giustamente, Baum non ne può più, eppure cerca di convincersi che in qualche modo, forse, sia possibile recuperare l’umanità, il senno civile, in chi l’ha perduto o forse non ha mai avuto occasione di apprenderlo.
E qui arriviamo a Darryl King, la sua nemesi annunciata. Entra in scena rumorosamente fin dalla prima pagina, ma ce ne vogliono quasi cento (snelle) prima di assistere al primo scontro con Baum. In poche parole, Darryl King è la paura personificata. Creatura partorita dal degrado urbano, Darryl è un nero di diciotto anni, già padre e zio, il cui unico scopo nella vita è scalare la gerarchia dello spaccio e diventare il signore del crack. Senza fare sconti a nessuno. King non percepisce limiti morali in ciò che fa, è capace di sparare a sangue freddo in bocca a un poliziotto fermo in macchina al semaforo solo per dimostrare ai suoi giovani sgherri di poterlo fare, ed è anche capace di strofinare il naso sulla fronte della nipotina mentre lei guarda i cartoni dell’Orso Yogi in tivù, commentando con parolacce e imprecazioni in tono dolce. Nelle sue annotazioni, durante il primo memorabile appuntamento tra i due, Baum lo definisce «potenzialmente psicopatico» e poi cancella «potenzialmente». Ma è sempre il solito irrisolvibile dilemma: Darryl King è un rifiuto impazzito del sistema, o Steven Baum è ancora più folle per pensare soltanto un momento di recuperarlo? Sarebbe più facile addomesticare Cerbero, e il confronto in questo romanzo è tra il fallimento di una società democratica e la realtà oggettiva dell’umanità allo sbando da cui è composta. Peter Blauner ammanta con una cortina «neo hard-boiled» (giusto per aggiungere ulteriori sfumature al calderone) una diatriba universale: il limite fino a cui si spinge Baum, e con lui la società civile che incarna, non è più per salvare i Darryl King del pianeta, ma per salvare l’idea di poterlo fare. Un’idea forse più ipocrita e fallimentare della cruda violenza, pura nella sua indifferenza, con cui l’animale Darryl King sopravvive al mondo reale, quello degli irrecuperabili.
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