18 de febrer del 2014

Cornwell: “In America si uccide per la fama”

[ La Stampa, 18 febbraio 2014]

"Siamo sempre più attratti dalla violenza e dalla morte i gialli sono il più sicuro Modo di avvicinarle, senza farsi macho"

Paolo Mastrolilli


I killer che fanno stragi uccidono per diventare famosi, e con l’attenzione morbosa dei media stiamo trasformando questo fenomeno in epidemia. Lo stesso presidente Obama dovrebbe smettere di occuparsene in pubblico, e invece di vietare la vendita delle armi, bisognerebbe prestare più attenzione alle malattie mentali. Questo scandalo della sorveglianza digitale dei cittadini fatta dalla Nsa, poi, è salutare, perché è vero che la tecnologia serve ad aumentare la sicurezza, ma quando viola così spudoratamente i confini della privacy è bene saperlo e discuterne. 

E’ curioso sentire queste lezioni da Patricia Cornwell, indiscussa regina americana del romanzo criminale, ma forse la contraddizione in termini le rende ancora più interessanti. Dust, il suo ultimo libro che esce in Italia da Mondadori col titolo Polvere, è la storia di un misterioso omicidio rituale, scoperto nel prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Il cadavere di una giovane donna viene ritrovato al centro di un campo sportivo, in una posizione che fa subito presagire un movente morboso alla dottoressa Kay Scarpetta, medico legale ed eroina della più fortunata serie di gialli della Cornwell.  

All’inizio del romanzo Kay è appena tornata da Newtown, dove è andata a fare le autopsie dei bambini uccisi davvero da Adam Lanza nella Sandy Hook Elementary School. Perché questo riferimento ad una tragedia reale che ha sconvolto l’America?  
«Quando è accaduta ero a Washington, nell’ufficio di un senatore, a discutere la violenza di massa negli Usa e come prevenirla. E’ stato uno shock. Poi ho pensato che se Kay Scarpetta fosse stata una persona reale, sarebbe andata a Newtown ad aiutare i colleghi. Ma il motivo più profondo era che volevo pormi il problema di come la polizia può prevenire le azioni di questi assassini, molto diversi dai serial killers con cui si confronta Kay». 

Perché diversi?  
«Le loro stragi sono dichiarazioni fatte per attirare l’attenzione. Commetti un’azione malvagia, e vai sulla copertina di Rolling Stone. Gente che spara nei cinema, nelle scuole, nei mall: è davvero troppo. La strage nella scuola Columbine del Colorado ha aperto la porta, e da allora succede sempre più spesso. La polizia non sa cosa fare, perché non può prevedere dove e come avverrà il prossimo attacco. Questi non sono come i serial killers, che girano da anni, seguono un percorso e sono prevedibili. Loro colpiscono all’improvviso, come i fulmini». 

Benton, il marito di Scarpetta, dice che uccidono per la fama.  
«E’ così. Dopo Columbine, si è creato il mito che se fai una strage diventi un anti eroe dark. Queste tragedie ispirano altre persone instabili, che vedono il trattamento riservato dai media agli assassini: diventano famosi, attirano persino l’attenzione della Casa Bianca. Allora pensano che vale le pena di attaccare, anche se pagano perdendo la loro stessa vita». 

Cosa bisogna fare per fermarli?  
«Prestare più attenzione a cosa ci accade intorno. Quando un cittadino nota un comportamento strano, deve portarlo all’attenzione della polizia». 

Ci sono due fazioni in questo dibattito: chi dice che bisogna seguire meglio le malattie mentali, e chi vietare le armi.  
«Newtown si poteva prevenire, perché le persone vicine ad Adam Lanza sapevano che aveva problemi psichici. Bisognava curarlo meglio, ed impedire che avesse accesso alle armi. La polizia queste cose non può saperle: la prevenzione nasce dalla famiglia, gli amici, i vicini». 

Se la madre di Adam non avesse potuto comprare i fucili che teneva in casa, la strage non sarebbe successa. Non è d’accordo con chi vorrebbe vietarli?  
«Chi possiede armi deve tenerle chiuse. Se uno è instabile, non gli dai accesso a un Bushmaster. I cittadini devono essere più responsabili». 

Quindi Obama sbaglia, a chiedere di limitare le vendite?  
«Preferirei che la Casa Bianca non fosse sempre coinvolta. Va bene che faccia le condoglianze ai parenti delle vittime, ma poi certe questioni dovrebbe lasciarle alla polizia locale, altrimenti premia i criminali in cerca di attenzione». 

E anche i media sbagliano a parlarne?  
«Negli Stati Uniti abbiamo la libertà di stampa, io sono stata giornalista, e non c’è modo di fermare i media. La gente, poi, deve sapere. Alcuni dettagli, però, li eviterei. Ad esempio i video di queste stragi, che quando vengono pubblicati ne ispirano altre. Se poi un assassino come l’attentatore della Maratona di Boston finisce sulla copertina di Rolling Stone, è una vergogna». 

La gente però legge anche migliaia di libri come i suoi, dove i serial killer più spietati sono protagonisti. Perché?  
«Siamo attratti da ciò che temiamo, cioè violenza e morte, e i gialli sono il modo più sicuro di avvicinarle, senza farsi male. E’ un po’ come i turisti di un acquario, che vanno a vedere gli squali: guardiamo ciò che ci fa paura, ma con un vetro davanti. Ci serve anche per capire. Pensiamo che se conosciamo i dettagli della violenza, poi siamo più pronti ad evitarla». 

Cosa è cambiato nella società, che ha alimentato tanta violenza?  
«Soprattutto l’attenzione che le prestiamo. Prima c’erano meno omicidi di massa perché non li conoscevamo. Ora ci sono centinaia di canali, tv, internet, social media: siamo bombardati. L’attenzione alimenta le fantasie degli instabili, che diventano ossessionati e decidono di passare all’azione». 

Nel suo romanzo ad un certo punto compare un telefono drone, che si può gestire a distanza per spiare qualunque cosa. La tecnologia ci restituirà la sicurezza?  
«E’ un’arma a doppio taglio. Di certo è uno strumento che permette cose magnifiche, ma può anche essere abusato». 

Cosa ha pensato, quando Edward Snowden ha rivelato la sorveglianza digitale condotta dalla National Security Agency?  
«Uno shock. Capisco la necessità di controllare, soprattutto i terroristi, ma quando le chiamate di ogni cittadino innocente vengono registrate, è bene che si sappia e si discuta». 

La privacy viene prima della sicurezza?  
«Non si possono bloccare queste tecnologie, e sarebbe dannoso farlo, però vanno regolate meglio». 

Ne scriverà ancora nel prossimo libro?  
«Il mio prossimo romanzo, ambientato anche a Venezia, parla di un cecchino infallibile serial killer. E’ bravissimo ad usare le armi, e impossibile da prendere, perché non lascia mai tracce...». 


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