16 d’octubre del 2013

La dolce malavita, la mia

[Corriere della sera, Il Club de Lettura, 16 ottobre 2013]

Stefano Montefiori


Benacquista e la violenza: "Non che ne subisca il fascino ma a volte verrebbe da usarla per risolvere certi problemi".


Alla fine di Quei bravi ragazzi Henry (Ray Liotta), tradito dai compagni mafiosi e senza un soldo, decide di passare dall’altra parte, vuotare il sacco ed entrare nel programma di protezione dei testimoni. L’epilogo del capolavoro di Martin Scorsese ha fornito l’idea iniziale per Cose Nostre – Malavita (traduzione di Francesco Bruno, Ponte alle Grazie, pagine 240, € 12,90), uno dei migliori romanzi di Tonino Benacquista.
«Come vive una famiglia straordinaria che si confronta con problemi ordinari? Mi è sembrata una situazione interessante», dice lo scrittore 52enne a «la Lettura», alla vigilia dell’uscita nelle sale del film prodotto da Martin Scorsese (il cerchio si chiude) e girato da Luc Besson, protagonisti Robert De Niro, Michelle Pfeiffer e Tommy Lee Jones.
Nel libro di Benacquista, e nel film, capita che il cassiere sia sgarbato con la signora Maggie, e che quindi lei dia fuoco al supermercato. «Non arrivo a dire che provo una forma di fascinazione per la violenza —dice l’autore— ma certe volte vorrei risolvere i problemi della vita quotidiana come fanno i Blake», ovvero la famiglia di Giovanni Manzoni, che protetta dall’Fbi si stabilisce in un paesino della Normandia per sfuggire alla vendetta della mafia. Fred trova in casa una vecchia macchina da scrivere e la usa come copertura, raccontando ai nuovi vicini di casa di essere uno scrittore americano venuto a ripercorrere l’epopea dello sbarco in Normandia. Maggie si occupa di beneficenza, e i ragazzini Warren e Belle si integrano bene a scuola ricorrendo —solo quando è necessario— a testate in faccia e mazza da baseball.
«Il tema della quotidianità di persone completamente fuori dai nostri schemi —spiega Benacquista— mi ha sempre affascinato, è presente in una serie eccezionale come i Sopranos ma questo interesse mi è venuto prima. Nel 1992 scrissi già Un contrat (Gallimard), dove un gangster è colto da crisi di angoscia e ricorre all’aiuto di uno psicoanalista, solo che più si confida e più lo psicoanalista rischia la vita… Immagino di avere colto qualcosa che era nell’aria e che in seguito si è visto anche nei Sopranos o inTerapia e pallottole, il film con Robert De Niro. In Cose Nostre lo spaesamento è accresciuto dal fatto che la famiglia di mafiosi per salvarsi deve provare a ricostruirsi una nuova vita in Francia, in Normandia, quanto di più lontano dalla loro realtà precedente».
È soddisfatto dell’adattamento al cinema? «Sì, mi pare una commedia divertente con molte scelte d’azione, dopodiché romanzo e film sono sempre cose molto diverse. Non ho curato io la sceneggiatura, mi piaceva l’idea che qualcun altro si occupasse di dare un prolungamento al mio lavoro».
Tonino Benacquista è uno dei più eclettici scrittori francesi. Scrive romanzi, testi teatrali, sceneggiature per film e per fumetti. «Sono attività molto diverse: quando mi dedico ai romanzi ho bisogno di molta concentrazione, lavoro al mattino, in silenzio, e ci impiego di solito un paio d’anni. La sceneggiatura invece è un lavoro meno di scrittura e più d’équipe».
C’è un punto in comune che lega tutte le sue opere, nelle diverse forme? «Direi il piacere di raccontare storie, e il fatto che mi sono formato più guardando film che leggendo libri. Sono nato nella banlieueparigina da una famiglia italiana della provincia di Frosinone, i miei fratelli sono tutti nati in Italia e a casa si parlava italiano. Da bambino ho imparato il francese grazie ai film che vedevo in televisione, e quelli che mi piacevano di più erano i film di gangster, o il telefilm Gli intoccabili. La letteratura è arrivata dopo, e credo che questo debito nei confronti del cinema e della tv sia evidente nel mio modo di lavorare».
Lo si è visto anche in Saga, il romanzo che nel 1997 lo ha fatto conoscere in Italia: una tv privata deve riempire la quota di produzione nazionale francese fissata per legge e allora assolda quattro improbabili sceneggiatori per una serie destinata a essere trasmessa di notte a costo quasi zero. Enorme successo. «Saga è stato il mio modo di rendere omaggio agli sceneggiatori, una delle categorie fino a qualche tempo fa più misconosciute. I tempi nel frattempo sono cambiati e io ne sono felice, gli sceneggiatori sono diventati delle star: nessuno sa chi è il regista di Lost o West Wing o Newsroom, ma tutti conoscono J.J. Abrams o Aaron Sorkin».
Nato all’ospedale di Choisy-le-Roi e cresciuto a Vitry-sur-Seine alla periferia di Parigi, in un ambiente famigliare lontano da libri e cultura, Tonino Benacquista ha esordito nel mondo del lavoro con le occupazioni più disparate, da pizzaiolo a cuccettista nei treni di notte tra Francia e Italia, a uomo di fatica (attaccava i quadri) in una galleria d’arte contemporanea: tutte esperienze finite nei suoi primi libri, prima del successo internazionale con Saga.
Ha già affrontato le sue origini italiane nel romanzo La commedia dei falliti del 1991, «ma è un tema che devo ancora esplorare fino in fondo e prima o poi mi dedicherò a risolvere la questione una volta per tutte, magari scrivendo la storia della mia famiglia». Quanto si sente legato all’Italia? «A differenza dei miei fratelli io sono nato in Francia, la mia lingua è il francese, ma il nome che porto e lo sguardo degli altri, sempre benevolo, devo dire, mi hanno sempre riportato alle mie origini italiane. Mi sono accorto presto che il mio nome in Francia suscitava una certa simpatia, c’è una specie di folklore legato all’Italia… Mi interessa molto il tema della doppia identità, che per quanto mi riguarda è legato al fatto che non c’è un luogo dove mi capiti di sentirmi davvero a casa… Non mi sento di appartenere davvero a una terra. Non al Lazio ma neanche a Parigi, dove vivo ormai da decenni. Sono nato nella banlieue, un territorio di passaggio, e forse anche per questo non ho ancora risolto definitivamente la questione delle radici, delle origini. C’è bisogno di un’altra opera, e la metterò in cantiere».
Che cosa sta scrivendo adesso? «Ho cominciato il terzo volume di Malavita, che ho sempre pensato come una tetralogia» (il secondo, Ancora Malavita, è già uscito in Italia sempre per Ponte alle Grazie). La carriera di Benacquista è ormai quasi trentennale. Com’è cambiato il suo modo di scrivere, di lavorare, nel tempo? «Mi pare di essere diventato più selettivo, più esigente nei confronti della legittimità di una storia. Agli inizi mi veniva un’idea e mi buttavo subito a raccontarla, adesso ci penso su, mi chiedo se ne valga davvero la pena. Qualche mese fa è uscito in Francia per Gallimard Nos gloires secrètes, una raccolta di racconti: ne ho scelti solo sei, anche se avevo materiale per 25».
Mai avuto il blocco dello scrittore? «Mi aiuto con uno dei pochi oggetti ai quali sono davvero legato, il mio totem: una bottiglia blu riempita di lettere dell’alfabeto, regalo del mio amico medico e scrittore Jean-Philippe Postel. Un elisir che cura le tre malattie dello scrittore: i crampi, l’ontalgia (o il male di essere vivi descritto da Queneau) e la “leucopaginosi”, ossia il morbo della pagina bianca».




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