Poirot, Marlowe e Maigret sotto la lente dell'economista Ernest Mandel
Antonio Carioti
Come il mito dell’eterno ritorno. O come il gioco dell’oca, per essere più prosaici. Dal romanzo picaresco in voga tre o quattro secoli fa, in cui l’eroe era di solito un fuorilegge, a certi thriller moderni, in cui i panni del protagonista sono spesso vestiti da un assassino, Ernest Mandel vedeva compiersi un ciclo nella vicenda della letteratura poliziesca, corrispondente alla progressiva decadenza di una società capitalista nella quale il crimine organizzato era diventato parte integrante del potere.
D’altronde il belga Mandel, scomparso nel 1995, non era un semplice appassionato di thriller e nemmeno un critico letterario. Studioso e divulgatore di economia, marxista eretico, esponente della Quarta Internazionale trotskista, fa uno strano effetto scoprirlo attento conoscitore di un genere considerato d’evasione nel saggio Il romanzo poliziesco, edito da Alegre con una prefazione del giallista Massimo Carlotto. Ma non c’è dubbio che la letteratura popolare sia un fenomeno sociale rilevante, meritevole quindi anche dell’attenzione di chi si sforza di studiare l’ordine esistente al fine di rovesciarlo.
Mandel considera il poliziesco un’espressione della razionalità borghese, che cerca di ridurre tutti i problemi «a misteri che possano essere risolti», usando «l’intelligenza analitica e la ricerca scientifica degli indizi», in modo da punire il criminale «che sfida le norme della classe dominante». In poche parole: «Disordine rimesso in ordine» è ciò che mettono in scena Arthur Conan Doyle, Agatha Christie, Rex Stout, Ellery Queen. Poi anche la figura del poliziotto, vista in precedenza con sfavore, viene legittimata e consacrata, specie come antagonista della malavita organizzata. Ma al tempo stesso, a partire dagli anni Trenta, l’ascesa dei gruppi criminali fa emergere quanto profonda sia la corruzione sociale, nella quale si dibattono gli eroi disincantati e solitari di Raymond Chandler o di Dashiell Hammett. La via è aperta perché il poliziesco abbandoni l’originario ruolo di supporto al potere borghese, per acquisire una funzione critica, «di disintegrazione del rispetto che il lettore poteva provare per questa società».
È un’impostazione ideologica che suscita forti riserve. Lascia interdetti leggere che delitti e brutture spariranno «se si abbattono le istituzioni dell’economia di mercato». E fa un po’ sorridere la tirata di Mandel su quanto sia orribile la società capitalista, se tanti suoi membri leggono vicende di omicidi «come modo rilassarsi», quando lui stesso inizia il libro confessando che ama il genere poliziesco.
Ciò non toglie che molti suoi giudizi siano acuti e interessanti. Tra gli autori italiani ammira Leonardo Sciascia, per la sua vena dissacrante verso il potere, mentre boccia Umberto Eco e tra le sue opere soprattutto Il pendolo di Foucault, romanzo che a suo avviso «sfiora il grottesco». Ma soprattutto colpisce che Mandel lodi come autori «della più penetrante denuncia della società borghese» Carlo Fruttero e Franco Lucentini: due signori di idee piuttosto moderate, che alle elezioni del 1976 si presentarono per un partito non proprio rivoluzionario come quello repubblicano di Ugo La Malfa.
Ernest Mandel, Il romanzo poliziesco. Una storia sociale, prefazione di Massimo Carlotto, Alegre, pagine 223, € 15
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